DIARIO
(racconto di Valeria Milazzo)
II Parte
26 gennaio, ore 01.22
Ci ho provato, lo giuro, ma è più forte di me. Quelle pagine hanno come un effetto magnetico su di me. Le sento, mi chiamano, mi cercano. Non riuscivo a dormire, continuando a chiedermi se la scelta di dimenticare cosa avevo letto fosse quella giusta. Ho aspettato che la ronda notturna passasse e mi credesse addormentato, ed ho estratto il diario dall’incavo in cui era contenuto. Prima di riaprirlo, ho preso un profondo respiro ed osservato attentamente la copertina, leggermente spiegazzata. Sapevo che, se avessi scelto di continuare questa lettura, stavolta non sarei riuscito a fermarmi. Qualcosa mi diceva che era molto più di un semplice diario, e volevo scoprire cosa fosse realmente. Per non svegliare nessuno e non emettere troppa luce, mi sono accucciato dietro il letto, con le ginocchia al petto e la mia piccola lampadina tra le dita di una mano, illuminando, parola per parola, i fogli che tenevo stretti nell’altra.
“20 luglio 2009
Le mie parole ti avranno spaventato. Tu non mi conosci, né io so chi tu sia, ma qualcosa di molto forte ci unisce. Lo sai, lo senti, e non puoi farci nulla. So che sarai confuso, che non capirai le mie parole, non ancora almeno. Ma ti assicuro che io e te abbiamo molte più cose in comune di quante tu non creda.”
Leggere le sue parole mi ha letteralmente terrorizzato. Mi sono chiesto se continuare davvero, e in un secondo, senza neanche pensarci, ho avuto subito, chiara, la risposta nella mia testa.
“La vita delle volte è crudele, in un solo istante sembra caderci tutto addosso, come se tutto quello che abbiamo faticosamente costruito svanisse improvvisamente. La mia vita, per me, era perfetta, nonostante tutti i suoi difetti. Al contrario, erano proprio le sue piccole imperfezioni a renderla unica. Come quando, nel preparare una pietanza, sbagli un ingrediente, ma scopri di aver creato qualcosa di fantastico. O come lo è un neo nel viso di una donna, un apparente difetto, che invece lo rende speciale, di una bellezza vera, non artificiale. Era questo che amavo della mia vita, l’insieme di quei particolari, quegli attimi che la rendono imprevedibile, tutta da vivere e da scoprire in ogni istante. La mia vita non era frutto di uno sterile calcolo, mi limitavo a viverla, a cogliere, momento per momento, le opportunità che essa mi offriva.”
Ero combattuto, spaventato ed incuriosito allo stesso momento. Chiunque sia quel ragazzo, c’è qualcosa in lui, nella sua storia, che mi è di incredibile conforto. E’ come se mi conoscesse, se sapesse, più di me e di chiunque altro, di cosa abbia bisogno. Nessuna medicina nè alcun dottore è riuscito a fare per me ciò che il suo diario è riuscito a fare in una sola notte. E’ una sensazione difficile da spiegare, come se tra quelle pagine ci fosse qualcosa di me, che forse mi appartiene, come è appartenuto all’anonimo ragazzo. Ha ragione, qualcosa ci lega, vorrei solo capire cosa, e l’unico modo sembra continuare a leggere. Eppure cosa abbiamo in comune io e lui? Conosce perfettamente cosa sia la vita, quando io non ho la più pallida idea di cosa sia. Mi sembra di non sapere niente della vera vita, come se fossi sempre stato qui, tra queste squallide mura bianche, di non aver mai passeggiato semplicemente per un vialetto, sentito l’odore di un pesco, contemplato le placide acque di un laghetto.
26 gennaio 2010, ore 17.45.
E’ diventata un’ossessione ormai, non riesco a staccare gli occhi da quelle pagine. I medici si sono resi conto che c’è qualcosa che non va, ma non hanno fatto altro che controllarmi con maggiore frequenza, ed accertarsi che prendessi le pillole. Stavolta ho dovuto fingere di ingoiarle, prima che mi lasciassero in pace. Continuano a chiedermi che cosa ho, a dirmi che mi vedono strano, più nervoso del solito; non si rendono conto che sono loro ad innervosirmi, continuando a starmo col fiato sul collo. Ho bisogno di continuare a leggere, devo farlo! Loro non capiscono, nessuno può. Non posso più fermarmi adesso. Ma fin quando rimarranno così vicini, non potrò far nulla. Non voglio che mi scoprano e che tutto finisca. Voglio arrivare fino in fondo.
26 gennaio 2010, ore 23.00.
Nell’attesa che la guardia che mi hanno messo alle calcagna se ne andasse, mi sono addormentato, forse a causa della scorsa notte, in cui non ho chiuso occhio. Ma non ho resistito a lungo, e anche nel sonno sono stato perseguitato da quelle parole. Sono ancora qui, non vogliono lasciarmi in pace. Forse è meglio che cerchi di tranquillizzarmi, anche solo che finga di star meglio, altrimenti non se ne andranno mai. Mi metto a letto, sperando di avere qualche speranza di convincerli.