…. Sulla biancheria intima
(Raffaello Piraino)
1 – Con rara capacità descrittiva, Tomasi di Lampedusa nel suo capolavoro, Il Gattopardo così scriveva: …le quattro casse verdi contenevano dozzine di camice da giorno e da notte, di vestaglie, di federe, di lenzuola suddivise in “buone” ed “andanti”, il corredo di Concetta invano confezionato cinquant’anni fa. Quei chiavistelli non si aprivano mai per timore che saltassero fuori demoni incongrui, e sotto l’ubiquitaria umidità palermitana la roba ingialliva, si disfaceva, inutile per sempre e per chiunque…
Esiste un codice che regola questi indumenti segreti; ma, esclusi come sono dallo sguardo collettivo, le loro dimensioni sono meno sociali che morali, meno mondane che sessuali. Intimi per essenza, di essi non si potrebbe parlare né separandoli dal corpo nudo – che avvolgono e modellano, simulandolo e dissimulandolo – né dall’abbigliamento visibile – col quale intrattengono rapporti sotterranei di reciproca dipendenza – né dagli spazi – straordinariamente privati, in cui fanno sfoggio di sé.
In realtà, come scrive Philippe Perrot nel Suo libro “Il sopra e il sotto della borghesia”, …la cauzione morale dell’abbigliamento visibile permette di parlare, mentre quella dell’abbigliamento nascosto reclama il silenzio. Né visto né conosciuto, né detto (i mutandoni femminili verranno spesso chiamati gli “innominabili”), l’abbigliamento intimo tocca troppo da vicino il desiderio o l’indegnità del corpo, esattamente come il bidet o il water-closet, altri oggetti e altre pratiche mute…
Nonostante la congiuntura che va dagli anni ’30 del secolo XIX fino alla guerra del ’15-’18 gli indumenti intimi femminili sono oggetto di un culto frenetico.
La loro invasione va ad iscriversi in un movimento più generale. La borghesia è angosciata, man mano che si insedia nel secolo, dall’ossessione di ricoprire, di avvolgere, d’imbottire o di seppellire a ogni costo la realtà. Ma quanto più forte è quella paura, tanto più gli indumenti segreti sono ampi, ricchi, resistenti. In quel secolo, secolo d’oro delle pruderie, una vera massa di sottovesti, mutandoni, giarrettiere, calze, sottobusti, busti e camiciole, richiedevano un lento éffeuillage, uno sfogliamento simile alla cipolla.
La storia della biancheria intima è parallela a quella della liberazione femminile. Ai suoi inizi fu un vero e proprio imprigionamento: il busto di stecche di balena, gli stringi – seno, i mutandoni con i lacci e le giarrettiere che segavano le gambe, costituivano elementi di guscio, di corazza. Tutte quelle legature strette, quei nodi e quei bottoni sottolineavano la schiavitù, l’impaccio, l’impossibilità a procedere speditamente. Presumibilmente furono le suffragette che per prime si liberarono del busto a stecche. La Grande Guerra indusse all’economia e alla semplificazione. Il grande sarto Paul Poiret decretò infine, negli anni ’20 del secolo scorso la definitiva liberalizzazione della donna.
Le donne, chiamate ora garçonne, diventarono impertinenti maschiacce che fumavano sigarette e usavano un libero vocabolario. Accorciarono i capelli, indossarono le gonne al di sopra delle ginocchia ed esposero, senza pudore le gambe che guizzarono per le strade in una marcia inarrestabile.
Oggi quella biancheria ha sempre più smarrito il concetto di necessità igienica per diventare solo un’eleganza segreta; un omaggio che l’industria e l’alta moda fa al sesso femminile per favorirne il risalto, l’esibizione.