RICORDANDO LÉVI STRAUSS
(Gianfranco Romagnoli)
Per ricordare la figura e l’opera di Claude Lévi Strauss, recentemente scomparso, il Centro Internazionale di Studi sul Mito ha tenuto il 27 maggio scorso una tavola rotonda presso il Conservatorio di Palermo, cui hanno partecipato i docenti dell’Ateneo palermitano Proff. D’Onofrio e Corselli, il Prof. Russo dell’Università di Trieste, il dott. Aiardi dell’Accademia Marchigiana di Scienze, Lettere ed Arti e il Direttore del Conservatorio M° Caruso.
Lévi Strauss è una figura centrale della cultura del Novecento, alla quale siamo tutti debitori: egli ha dedicato al mito gran parte della sua ricerca, i cui frutti sono concentrati specialmente nei quattro volumi del ciclo Mythologiques. Il suo interesse di antropologo per l’universo mitico è fondato sulla stretta connessione che vi ravvisa con le strutture delle società.
La sua ricerca, sviluppando concetti già espressi nel precedente libro Il pensiero selvaggio, non si è rivolta ai miti delle grandi civiltà del passato, ma al mondo mitico “minore” e poco conosciuto delle popolazioni primitive dell’America tropicale, cui dedicò molti anni di studi in loco: una scelta motivata non solo e non tanto dall’influsso della moda del “primitivo”, che all’alba del secolo passato pervase il mondo occidentale in vari settori della cultura e dell’arte, ma soprattutto dall’idea di una maggiore ‘vicinanza’ delle popolazioni primitive alle fonti del racconto mitico, che non deformato, per l’assenza della scrittura, da interventi letterari, poteva meglio prestarsi ad una corretta interpretazione.
Peraltre, Lévi Strauss ha messo in discussione lo stesso concetto di popoli primitivi , distinguendo soltanto tra popoli privi di scrittura e quelli che la possiedono e dimostrando che il pensiero “primitivo” non è condizionato esclusivamente dalle necessità vitali o dalle emozioni e dalle rappresentazioni mistiche, ma è in grado di esprimersi in modo disinteressato e sorretto da strumenti intellettuali allo stesso modo del pensiero scientifico, pur mirando, a differenza di questo, a una impossibile spiegazione globale della realtà attraverso il mito anziché ad un esame analitico.
La grande innovazione che Lévi Strauss ha recato nella ricerca sul mito è l’avere applicato ad essa il metodo strutturale – introdotto nella linguistica da Ferdinand de Saussure – basandosi sulla constatazione che il mito, espressione dell’attività inconscia collettiva dello spirito umano, si struttura come un linguaggio, associando secondo precise regole unità costitutive minime e dando luogo a unità significanti. E’ così possibile scoprire, nei vari racconti mitici, strutture fondamentali che, al di là delle apparenti diversità fra essi, ruotanti intorno ora ad uno, ora ad un altro asse, li rivelano uniformi ed atti a formare gruppi o serie mitiche. Ciò consente di trovare un ordine in un apparente disordine, risolvendo il cosiddetto paradosso di base per cui le storie mitiche sono, o sembrano, arbitrarie, prive di senso, assurde, eppure si ritrovano simili in tutto il mondo. Lévi Strauss ne deduce che leggi universali devono governare il pensiero mitico: ogni mito può sembrare unico, ma è solo un’istanza particolare della legge universale del pensiero umano.
Tale asserzione non è però priva di contraddizioni: la possibilità di applicare tale metodo partendo da una società ed estendendolo via via ad altre resta infatti subordinata, a suo stesso dire, alla condizione che tra le società prese in esame «siano accertati, o quanto meno possano essere ragionevolmente postulati, dei nessi reali di ordine storico o geografico», sicché il nostro Autore, partendo dal Brasile arriva, al più, a definire miti panamericani.
Questa autolimitazione, che richiama alla mente le teorie diffusioniste, rende inspiegabile il fatto che identici miti si ritrovino, con poche varianti, in parti del mondo che non hanno avuto tra loro alcuna contiguità territoriale o contatto storico: egli stesso peraltro, nel segnalare l’esistenza di un mito diffuso in tutto il continente americano, dà atto della sua rinvenibilità non solo nello stretto di Bering, nell’Asia settentrionale e nella Russia settentrionale – ciò che, alla luce del suo criterio, potrebbe spiegarsi con la continuità territoriale esistente in tempi antichissimi tra i continenti euroasiatico e americano – ma anche in Malesia, lasciando così sostanzialmente irrisolto il problema.
Invero, se Lèvi Strauss ha indubbiamente avuto grande merito di riconoscere l’esigenza di applicare allo studio del mito, con fecondi risultati, un metodo peculiare e diverso da quelli passati, ha incontrato un limite nella sua stessa concezione dell’antropologia come scienza che ambisce a proporsi quale summa culturale, rifiutando sostanzialmente – anche se non assolutamente – di riconoscere gli apporti di altre discipline quali la storia, la filosofia e la psicoanalisi junghiana, laddove la pluralità di approcci ad un problema è, invece, connaturata allo stesso concetto di scienza e sempre produttiva di soluzioni nella ricerca scientifica. In particolare, ritengo che la concezione junghiana degli archetipi come resti archeologici della memoria collettiva che riemergono nel sogno, con la correzione di Kerényi che essi possono emergere anche nella veglia attraverso qualsiasi elemento della realtà che assurga a simbolo, ben potrebbe concorrere a spiegare l’uniformità dei miti in situazioni di assoluta distanza territoriale e culturale.
Peraltro, a ben vedere, nello studio del mito sia l’approccio strutturalistico che quello archetipico muovono da uno stesso presupposto: ritenere il mito frutto dell’inconscio collettivo. Tuttavia, mentre in Jung/Kerényi il concetto di immagine archetipale sembra radicato nel platonico mondo delle idee, in Lévi Strauss prevale l’idea del valore fondante della maestà del gruppo sociale, conformemente all’angolo visuale proprio dell’antropologo, cui non sembrano estranee alcune posizioni politico-ideologiche dell’Autore.