Alta e bassa marea
(Dante Maffia)
Io che cosa c’entro con l’infinito
in questo pulsare senza tempo
e senza verità?
Fuori dai cancelli
abbaiano ombre indecifrabili,
stilemi di stelle e altri residui
che somigliano al vento marcio
di traguardi perduti.
E s’allontana la città
verso campi di colza
e le barriere delle pervinche
che attestano il trionfo degli archetipi.
Non una sola nota si salva
e può accadere
che si pieghino le strade in finzioni.
Ma io che cosa c’entro con questa fuga
affrettata di cinghiali
che arrivano possenti
dentro l’occhio dell’Assenza?
Distruggono gli orti,
hanno il potere d’infrangere le barriere…
Ma io…?
Io che cosa c’entro con il disastro neutro
dei connubi irrisolti, con le mediazioni
tra Dio e l’incorrotto delirio della Forma
che avida si apre
a un finto traguardo?
Cadrà molta neve,
risorgerà la tempesta
con la sua voce di falco infedele
e sarà l’assoluto errare dei sintomi
a percorrere la distanza
tra intuizione e caduta.
Ma io che cosa c’entro
col dilatarsi del mio corpo,
della sua corsa
che ha vaghezze e… vaghezze
e arrancare di traini sonnolenti
nelle notti estive coi carichi
esanimi di ciottoli
con la sete dei singhiozzi recuperati
dai lamenti umani che s’intromettono
proprio mentre il punto sta per saturarsi,
per compiersi la durata e uccidere l’ardore
della tentazione d’esistere…
Per decifrare il pane e renderlo
fattivo nesso dell’anima,
ho corso per anfratti e foreste per dirupi
e fondali marini. Il rancore era un uovo
vivido di senso che oscillava
rompendo la linea retta. Il non vissuto
usciva a fiotti dal suo limite
e l’essere s’appellava a se stesso
in nome dell’Alto,
interamente chiuso, ormai reminiscenza
d’ una finalità che cerca gloria.
Ma io…?
Ecco che divento
l’aspro cammino,
come se luce e senso fossero in combutta.
La sostanza mortificata blatera
contro i riflessi di morte preghiere,
contro il manierismo e le assuefazioni,
contro le disconnessioni, i luoghi sacri
delle abitudini, e non sempre è permesso
ai dilavati crinali dei simboli
prendere possesso delle perdite:
i simboli si spogliano a poco a poco
della carne e del sangue.
Ma io…?
Il tremore dell’insidia è l’unica parvenza
della fosforescente nascita
che apre me
a un divenire d’acqua e di dissolvenze.
Il mondo delle fate nel suo fasto
e nel fulgore di antiche danze,
come se altro fossi da me
e io altro da Te,
come se nel disgelo e nell’assenso
avessi perduto l’assioma
mentre la distesa dei mari e delle terre,
la distesa del non detto e del non vissuto
continuano a svolgere il loro ruolo
cieco che non perdona ai poeti
l’avidità gioconda della conoscenza.
Ma io…?
Abbi pietà, io non ho mai sostato
nel non visto e nel non goduto,
e ho sempre tenuto
la sintassi in fermento,
sempre difeso
il canuto spasmo innocente
che errava nel cuore.
Passi e rintocchi mi hanno accompagnato
nel pascolo morente degli abbagli
senza sipari senza delitti e cupe
recriminazioni. Ero lì, dovevo vivere…
e non vivere sarebbe stato serrare
il passo all’invisibile, offenderTi
come se tu fossi ammalato o troppo distratto.
Le sintesi, gli sviluppi, i traguardi…
Un continuo germogliare di frutti insensati,
il diluviare di pieghe e di sipari
in un teatro d’ agonie di luci.
E sempre il non goduto, il non compreso,
per il battesimo perenne
della priorità della morte.
Ma io… io perché portato alla soglia
del mistero e lasciato nel tripudio del quasi,
nell’indomabile addio incessante
che si fa pena in ogni parola
e anche nell’esserci con piedi, mani e occhi.
L’abbaglio e il canto,
la misura dell’atto di presenza
con coinvolgimenti che hanno
silenzi enormi ed esagitati…
e il sopruso della luce, il dilagare
di un Te che non ha nome
né storia, né forma visibile
se non nel pulviscolo dell’anima,
nel passo delle nuvole che scrivono
il Dubbio attaccate a un azzurro
tenero e incontestabilmente vile.