Terra irrazionale e uomini del non-fare?
(Carmelo Fucarino)
Si deve dare merito al sovrintendente Antonio Cognata, che, dopo lo splendido concerto swing di fine d’anno, prova per allineare l’istituzione con quelle europee (cena compresa, come a Vienna), ha voluto aprire un’altra finestra sul Teatro Massimo, con lo spazio per la letteratura tout-court, cioè non legata alla musica. L’occasione è stata offerta dalla Fondazione De Sanctis nel contesto della seconda edizione di L’eredità di Francesco De Sanctis, che ieri 3 maggio ha qui presentato il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, come “ultima tappa del viaggio nella letteratura italiana”. A cominciare dalla celebrazione del 150° della spedizione di Garibaldi, tanto oltraggiato dai Padani che da regione austriaca divennero nazione, e qui ricordato nella interpretazione ex post (avvocatesco per a posteriori) da Tomasi, la manifestazione è poggiata su stereotipi duri a morire. Le finalità della fondazione, esposte dal pronipote dal fatidico nome Francesco, definiscono la maestosa architettura della Storia della letteratura come strumento di unificazione linguistica e politica. Si continua a non tenere conto del suo iter romantico e si considera nella prospettiva di una letteratura proiettata all’unificazione d’Italia, da Dante a Manzoni. Ha ricalcato abusati stereotipi anche la roboante e appassionata presentazione dell’opera da parte di Giorgio Ficara, saggista e critico letterario torinese, ordinario di letteratura italiana all’Università di Torino. È caduto proprio nella trappola della quale lo aveva ammonito, a suo dire, il padre siciliano, mai parlare di Sicilia, senza essere siciliani. È stato, come quel Puzo e il Brando e il Pacino di Coppola, italo-americani di seconda o terza generazione che nulla sanno di indole, di carattere siciliano, neppure di lingua. Il siculo-torinese di seconda generazione, in nome di quel sangue che circola nelle sue vene ha voluto “arrischiarsi” in un campo minato e ha ripetuto viete aberrazioni di letture interessate. Non ha compreso da lettore colto di un romanzo che di romanzo si trattava e perciò di una visione estremamente soggettiva, con gli stessi limiti della sicilitudine di Sciascia, da lui citata, da noi respinta, come categoria razziale. È stata l’errata codificazione della Sicilia e dei Siciliani che una certa critica nordista ha stravisto nelle pagine dello sciagurato romanzo. Non si fraintenda, il Gattopardo è un capolavoro, è per questo però più rovinoso. La Sicilia e i Siciliani descritti sono quelli visti dall’occhio del principe, cioè di un viceré (la prima edizione dei Viceré di De Roberto è del 1894, Tomasi nasce nel 1896) attardato al 1957 che prende il cappuccino come un borghese al bar Mazara e tragicamente medita sul disfacimento della sua classe sociale, l’ultima generazione di nostalgici estrosi e senza eredi, come i fratelli Piccolo, suoi ospiti nel rifugio di Capo d’Orlando. Era la Sicilia di una nobiltà rosa dalla tabe ormai atavica dei matrimoni fra consanguinei e votata alla distruzione. Era quella la Sicilia, identificata magistralmente nel “non fare”, perché da sempre il lavoro era stato disonorevole, di contro ai mastri Gesualdo del “fare”, la società già esautorata dai Borboni e morta per consunzione. Erano questi i Siciliani del principe che vedeva la sua terra “matrigna” più che leopardiana, e si esaltava nell’elegia del paesaggio preraffaellita inglese, la nostalgia della mitologia anglofila dai tempi di Nelson, l’Albione della democratica monarchia, dei sir delle terre putride e dei viaggiatori snob. Il mito tardo a morire che oggi si bea della lady Mary Quant o del sir Paul McCartney. Quella nobiltà inglese dello splendido Liberty e della corte raffinata dei commercianti Florio. I Siciliani e la Sicilia del Gattopardo sono semplicemente la nobiltà dei Lampedusa al tramonto che non si rassegna al suo funerale, diversa da altri nobili dediti al “fare” che diventano enologi o industriali. In questo contesto emblematica ed esemplare l’interpretazione teatrale dei passi da parte di Gigi (affettuosamente, come lo chiamavamo a scuola) Lo Cascio. Da raffinato lettore ha accentuato e fatto palpitare la particolare sfera esclusivamente soggettiva del racconto del principe. Il primo brano nel troppo smaccato commento al “primo pranzo” a Donnafugata, una specie di cena alla Trimalcione aristocratica, la macchietta di don (titolo nobiliare per un parvenu) Calogero e tutta la corte dei miracoli, e poi inattesa l’epifania dell’incontaminata e virginale bellezza popolare, epica già nell’arrischiato iperbolico nome della carolingia Angelica. Sembra che Capuana e Verga, quelli dell’impersonalità dell’arte, non siano mai esistiti, soprattutto il Verga della elevazione sociale del mastro, qui coerentemente visto dalla prospettiva di abbassamento sociale del principe. Ancora da soggetto narrante con notazioni troppo dirette la dolorosa ascesa al suo particolare Mont Ventoux, donde al contrario scopre la sua eliottiana The Waste Land, la sua terra desolata, le “groppe, sconfortanti e irrazionali”, il mare pietrificato e la pietà per il coniglio fucilato. Troppo pamphlettistica la tirata politica, esageratamente famosa, il sonno dei siciliani, il non fare, il paesaggio, “la generazione disgraziata, a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi”. Così magistrale prova di recitazione l’agonia e la morte del Gattopardo, registrata troppo emotivamente dalla parte del morente, forse l’ultima prova di scena dell’autore, accompagnato dalla bellezza rigeneratrice, inappagata brama di sole, la sua epigrafe e quella di una parte della sua classe sociale. Ma non certo quella della Sicilia e dei Siciliani, in patria e nel mondo, con la loro carica di umanità e di saper fare.