Il colossal al teatro Massimo
(Carmelo Fucarino)
Il teatro Massimo ha messo in scena nella serata del 14 aprile 2010, come produzione propria della stagione, un colossal strabiliante con 26 ruoli diversi e otto sostituti, 22 mimi e tante comparse, popolo di Genova, nobili, borghesi, soldati, servitori, donne, fanciulle, bambini, fauni, naiadi, baccanti, inseriti in una scenografia sontuosa, frutto di un notevole sforzo finanziario ed organizzativo. Per la novità il teatro è al centro dei riflettori mondiali e dell’interesse dei melomani, studiosi e musicologi di prestigiose università e fondazioni e di oltre quaranta testate accreditate. La Rai Tre la trasmetterà in differita e la presenterà in “Prima della Prima” e in speciali su Radio Classica e RAI Radio Tre. Il momento eccezionale e storico è la prima assoluta italiana, i tre atti integrali di ben 2,50 minuti di piena azione (più 40 mm di intervalli), della difficile opera Die Gezeichneten (I predestinati), musica e libretto dell’austriaco Franz Schreker (1878-1934). Il dramma fu composto tra il 1913 e il 1915 su richiesta del viennese Alexander Zemlinsky, amico di Schönberg e innamorato di Alma Mahler, per una ‘tragedia dell’uomo brutto’. Significativa curiosità: Schreker realizzò un’opera tutta personale e, profittando delle richieste di piccole modifiche del commissionante, ne trasse un’opera per sé. Zemlinsky scelse per la sua Der Zwerg (1921) il dramma affine di Oscar Wilde, The Birthday of the Infanta, già da lui utilizzato per un’opera sinfonica. A causa della guerra il debutto avvenne alla Opernhaus di Francoforte il 25 aprile 1918. Rinomata l’edizione di Stuttgart del gennaio 2003 e, coincidenza imprevista, la messinscena in questo stesso aprile anche a Los Angeles (The Stigmatized). Per i melomani le edizioni filmiche di Carl Theodor Dreyer (1921) e di Nokolaus Lehnhoff (2004).
Questo fiore marcio di tardo romanticismo nasce in un momento particolare per l’Europa e per la Germania, gli anni postbellici dell’agonizzante Weimar e dell’inflazione galoppante, la Germania del vorticoso pendio verso la tragedia. Schreker è incoronato l’artista più grande e successore di Wagner nell’ambiente culturale anteriore al Putsch che riscopre, come fuga dalla terribile realtà quotidiana, il manierismo di voga di un Medioevo e di un Rinascimento in chiave romantica. Il compositore raccoglie tutti gli input culturali e ne esce un mixage a partire da Shakespeare (Timone di Atene) con echi e rimandi da Wedekind a Maeterlinck a Mann, una commistione di espressionismo, di Jugendstil imperante (la francese Art nouveau, il Liberty inglese e lo stile floreale italiano) e di secessione viennese con la tipica sensualità e il simbolismo decadente di Gustav Klimt, quello della ripresa psicanalitica segno pittorico- inconscio. E poi reminiscenze da gobbo di Notre Dame e da bella e la bestia, uno straordinario potpourri di morte e corruzione, in cui la ricerca della bellezza è l’antitesi spiazzante del brutto e del deforme che crea Elysium e pretende di donarlo alla comunità, dei giovani rampanti da “gioventù dorata” che praticano il rapimento e lo stupro. Su tutto la bellezza estetizzante del poeta gobbo e della pittrice Carlotta restano un pretesto per stigmatizzare attraverso la deformità l’abbrutimento interiore su cui grava la lettura di Siegmund Freud, Karl Kraus e Otto Weininger.
Nell’edizione palermitana domina protagonista incontrastato Graham Vick (Liverpool, 1953), direttore artistico alla Birmingham Opera, genio innovatore della regia operistica e della scenografia del meraviglioso, del simbolo e della stilizzazione, dissacrante come per l’enorme cubo vuoto del suo Macbeth alla Scala, simbolo del potere, del destino e dell’oppressione, a seconda dei colori che lo illuminavano, o per la Desdemona che prega su un lettino militare disadorno e povero o per i Troiani di Berlioz, visti a Firenze, come soldati della legione straniera, che escono da un arco trionfale rovesciato che emerge dalla sabbia. Collaboratore dei teatri di tutto il mondo e presente nei maggiori teatri italiani dal 1981 ha colto le ridondanti allucinazioni di Schreker, esasperandole con effetti spettacolari certamente esplosivi con l’aiuto dei suoi collaboratori abituali, Paul Brown per scene e costumi, Ron Howell per i movimenti scenici e Giovanni Di Iorio per le luci. Celebrato per la sua capacità di interpretare il testo, senza tradirne lo spirito, ha finito per rappresentare un’opera sua, eccezionale e fascinosa, ma sua, aggiungendo altre allusioni e giochi di specchi psicologici del subconscio al dualismo estetico tanto da superare le già stravaganti creazioni dell’autore, oggi di estrema attualità. Così pure la moderna smania di attualizzare (per un pubblico bambino che rifugge dall’opera in costume, ma va pazzo per i romanzi storici?), la trasposizione ai giorni nostri di una tragedia collocata in una improbabile Genova del XVI secolo, stilizzata ed oleografica, da lui resa con personaggi piccolo borghesi moderni, in grembiule e camicia, che si apostrofano con epiteti di doge podestà duca conte senatore e semplice nobilume, con richiami a carrozze e cavalli, certo cavalli-vapore di una fiammante ferrari testarossa. Infine la lettura psicoanalitica della scenografia e dei costumi klintiani, in cui la bidimensionalità delle forme e lo stridente e preziosistico accostamento dei colori, si realizza nella sovrapponibilità delle scene delle mostruosità floreali dell’isola artefatta e fantastica (quale isola vicina a Genova?), fino alla frenesia della lunga scena dell’imbrattamento delle pareti bianche (se non imperversasse lo spot televisivo di una nota casa automobilistica!). E la mostruosità delle forme botaniche si unisce a quella della fattoria di Orwell, agli ibridi uomini bestie alla René Magritte, simbolo di mistero, come la stessa nudità umana che risulta oscena e riconduce al ributtante. Dichiara il regista : “Preparando quest’opera, ho deciso di mettere in risalto i contrasti fortissimi fra i personaggi, le loro storie e le loro anime. Schreker prende gusto a scandagliare i lati più oscuri e sordidi dell’umanità: bisogna buttarvisi dentro, non rinunciare a scoprire cosa c’è al di là, oltre il deforme, oltre l’aggraziato, oltre il lusso, oltre l’arte, oltre la natura”.
In questa frenesia di allusioni, talvolta al limite della paranoia, resta la musica di un’età di transizione, trasbordante, sospesa ed incerta tra Puccini e Strauss e Debussy, le sperimentazioni di Wagner e le nuove tonalità e linguaggi sonori di Schönberg, magistrale la lettura musicale nella direzione del francese Philippe Auguin, specialista del repertorio mitteleuropeo del XX sec. e assistente di Herbert von Karajan, messo in ombra dall’ingombrante regista. Trascinanti interpretazione ed esito canoro di Peter Hoare-Alviano poeta e di Angeles Blanca Gulin – Carlotta pittrice, convincenti anche Robert Hale – Adorno e Scott Hendricks – Tamare. Ouverture e intermezzo dilatati allo spasimo in una lettura musicale perfetta per direzione ed esecuzione.
Molti vuoti nel teatro, ma un pubblico scelto ed attento delle novità assolute che l’abbonato non apprezza.