Buono spettacolo e tante risate!
(Carmelo Fucarino)
Sulla commedia antica gravano una serie di errate o inesatte informazioni. La più frastornante è l’immotivata certezza che esistesse un secondo libro della Poetica di Aristotele che ne discutesse diffusamente. Raffaele Cantarella ne ha dimostrato la falsità. Eppure un eccelso epistemologo ha fatto fortuna, inventando su questo bluff il suo Medioevo da secondo Millennio, l’unico bestseller mondiale d’Italia, Il nome della rosa. Ma così va il mondo. Il popolo odierno, nauseato dal presente fangoso, ama rifugiarsi nelle finzioni storiche, dalle parate di improbabili Padani agli inganni ben fatti di Dan Brown e del suo Codice inventato. A parte la fuga dalla realtà nella giallomania, thriller, horror o poliziesco di paese, imperversa il romanzo storico su medioevi di cartapesta. Si sottace la prima parte che definisce il genere, cioè il fatto che sono romanzi, fiction, dicono gli Americani. Ma siamo un popolo allevato sui colossal di Romani con l’orologio da polso, i peplum, ritornati di moda e che trovano il pendant in splendenti e tragiche biografie eccellenti, ma di remota antichità.
Sulla commedia, che per consuetudine siamo soliti chiamare greca, pesa un altro grave errore di comunicazione. Quelle undici commedie di Aristofane, le sole pervenuteci dalla tradizione, impropriamente si definiscono greche. In effetti sono un’invenzione specificamente ateniese, come le tragedie pervenuteci, e quindi di area e dialetto attico. Non è che qualche volta Aristofane non usasse altro dialetto, il beotico, per esempio, ma per caratterizzare un personaggio rozzo della campagna, il rustico padovano Ruzzante, non certo il siciliano inesistente di Camilleri, meglio il dialetto di politici nostrani, che dicono parlamendo e patri e motta (morta). Coesistevano ed erano le forme più antiche di rappresentazione teatrali, il mimo e la commedia italiota, famosa in Sicilia per merito di Epicarmo, di argomento mitologico e didascalico. Invece la tragedia e la commedia attiche erano legate alle feste in onore di Dioniso, il dio orientale dell’ebbrezza e dell’irrazionale. Aristotele scrive che la commedia ateniese ebbe origine da “coloro che guidavano i canti fallici, che ancora oggi sono in uso in molte città” (Poetica, IV, 49a 11-13), e preferisce l’etimologia da kômos, “baldoria orgiastica”, e odè, “canto” oppure dal verbo komàzein, “scherzare con lazzi volgari” (III, 48a, 37). Un esempio di falloforia è presente negli Acarnesi di Aristofane. Essa era una processione rituale nella quale il corteo, preceduto da una canefora reggente il canestro con gli oggetti sacri, recava in processione il fallòs, simbolo della fecondità, e intonava un canto fallico. L’elemento scurrile e di attacco permase nella complessa parabasi in sette parti, assente nelle Ecclesiazuse. Pertanto le rappresentazioni tragiche e comiche era strette espressioni di sacra ritualità, per farcene un’idea, simili alle nostre sacre rappresentazioni medioevali, dalle quali per espansione nacque la commedia dell’arte.
Ma soprattutto le rappresentazioni ateniesi erano un unicum, detto emmeleia, complesso inscindibile di parola (poesia in giambo e altri metri), canto corale e musica, danza. Pensate alla solenne Porgy and Bess di Gershwin o a My fair Lady, ma con uno spirito diverso, la sacralità della procreazione, resa normale dalla scurrilità sfrenata. Cosa ci è rimasto? Solo un ipotetico testo, soggetto nei secoli agli adattamenti personali degli attori. Perduta la musica, non immaginabile la danza, della quale le pitture vascolari hanno fermato l’istante, come le nostre foto istantanee.
Perciò con somma lode l’interpretazione dei nostri Lions è quella di una moderna commedia in lingua siciliana di Claudio Russo, liberamente tratta da, come si suol dire, non ha la pretesa di rappresentare un ipotetico e falso Aristofane per un pubblico moderno abituato ad altra comicità, ma è completa rielaborazione, uno spettacolo che trae semplicemente pretesto dalla trama di un’opera antica con linguaggi, numero di attori e talvolta personaggi nuovi, con maschere e costumi, musica moderni, una pura invenzione scenica odierna, per farvi ridere sugli eterni difetti degli uomini, sul celebre “ridicolo” aristotelico: “la commedia è imitazione di persone di poco conto, non certo per ogni cosa cattiva, ma del turpe è parte il ridicolo. Il ridicolo è infatti un errore e una bruttezza indolore e senza danno, come presto la maschera ridicola è il turpe e lo stravolto senza dolore” (Poetica, V, 49a, 32-37)