Quando nascette Ninno a Betlemme
(di Raffaello Piraino)
Era notte e pareva mienzojuorno…
Davanti al presepe che avevamo costruito così cantava mia madre, napoletana verace, la notte di Natale.
Nei primi giorni di dicembre tiravamo fuori dal magazzino i sacchi del sughero e dal ripostiglio la scatola dei pastori. Nel rivederli, a distanza di un anno, provavo sempre una grande emozione. Con i miei fratelli restauravo le parti sbiadite, incollavo braccia e piedi rotti e speravo che nostra madre si decidesse ad acquistare nuovi pastori in Via San Basilio a Palermo. Quella via del centro storico era caratterizzata da una successione di piccoli negozi allineati su entrambi i lati. Al loro interno modesti artigiani modellavano i pastori pressando l’argilla nelle forme mentre gli artigiani-scultori, seguendo un’antica tradizione siciliana, rivestivano le creazioni con tessuti irrigiditi con colla di coniglio (in Sicilia uno dei centri più attivi nella produzione di presepi a cavallo tra Seicento e Settecento fu sicuramente Trapani, e da qui, per merito di Giovanni Antonio Matera (1653-1718), detto mastru Giuvanni lu pasturaru, l’attività di figurinaio si innalzò ad arte e si diffuse nelle altre province).
In un angolo delle piccole botteghe, alla luce dei Petromax (erano gli anni dell’immediato dopoguerra), le donne si dedicavano alla colorazione dei pastori spennellandoli con colori terrosi, piatti ed essenziali. Alcune dipingevano di rosa volti e mani, altre pigmentavano le vesti di rosso, giallo, verde e blu ed altre ancora con il nero evidenziavano le scarpe e i capelli. La più esperta, quasi sempre una donna anziana, con la punta del pennello rifiniva le statuine e le poneva ad asciugare nelle scaffalature. Una vera e propria catena di montaggio. Quel fervore creativo terminava con l’arrivo dei Tre Re. A gennaio infatti tutto finiva, le botteghe chiudevano i battenti e gli artigiani si dedicavano ad altri mestieri per il proprio sostentamento. Via San Basilio sarebbe tornata ad animarsi il Natale successivo.
I nostri occhi brillavano di cupidigia e avremmo desiderato acquistare l’intera campionatura di pastori. Di anno in anno la realizzazione del nostro presepe si annunciava sempre più grande e ricca di effetti speciali. Tutti i mestieri erano rappresentati anche se era alquanto improbabile che, a quel tempo, a Betlemme, nella Notte Santa, ci fossero venditori di salumi, pizzaioli, osti grassi e rubicondi che mescevano vino agli avventori o che una zingarella con il suo pappagallino leggesse la mano ai viandanti. A noi, poco importava la non aderenza agli usi e ai costumi dei paesi arabi; noi perseguivamo quel che l’estro creativo ci suggeriva. I nuovi acquisti integravano i pastori già in nostro possesso e si mescolavano ad altri di diversa provenienza. Negli anni, un po’ alla volta, nostra madre, in visita ai parenti partenopei, li aveva comperati nella famosa via di San Gregorio Armeno ma, il contrasto tra le due tradizioni era evidente. I pastori siciliani si mostravano seriosi, statici, tetri, quelli napoletani invece, esprimevano dinamismo, teatralità, gioia di vivere e soprattutto corale partecipazione all’Evento.
Sceglievamo l’angolo del soggiorno ritenuto più idoneo e da quel momento il progetto, già elaborato nella nostra mente, diventava esecutivo. Il fratello più grande provvedeva alla costruzione rivestendo un’impalcatura con sugheri contorti e rugosi. Aveva cura di creare grotte, anfratti, antri, montagne dolomitiche e pianure dove avrebbe sistemato greggi e mandrie. Io dipingevo il fondale con i toni sfumati del bianco, del grigio, dell’indaco e del blu. Disegnavo nuvole tempestose spazzate dal vento, picchi innevati e voli di uccelli. Il più piccolo dei fratelli, affinché non compromettesse con la sua esuberanza quell’idilliaco assemblaggio di idee e di oggetti, lo mandavamo a raccogliere il muschio fresco nelle stradine di campagna. Molte discussioni nascevano su come realizzare la trasparenza del lago, l’acqua del ruscello, su come imbiancare le cime dei monti e i tetti delle case dalle curiose architetture di tipo alpino. La posa dei pastori, infine, provocava altre animate discussioni. Alcuni personaggi riscuotevano la mia simpatia e avrei voluto riservare loro una posizione privilegiata: il cacciatore, ad esempio, lo avrei voluto vicino al laghetto, lo spaventato all’imbocco della grotta e il dormiglione accanto al gregge. Il parere discorde dei miei fratelli faceva accorrere la mamma che troncava ogni discussione decidendo lei per noi.
La sistemazione della scintillante stella-cometa e degli angeli recanti il cartiglio con la scritta: Gloria in excelsis Deo et pax in terra hominibus bonae voluntatis, significava che il presepe era stato ultimato e cercavamo allora consensi gratificanti. Primo fra tutti quello di nostra madre che con pazienza aveva sopportato il disordine.
In quel periodo che precedeva il Natale, i preparativi in casa erano febbrili e, all’odore del sughero, della colla e del muschio si mescolavano altre fragranze tipiche della ricorrenza. Dalla cucina, dominata dal forno a legna, si diffondeva per la casa il profumo dei buccellati. Mia madre li preparava in anticipo e in gran quantità per omaggiarli a parenti e amici. Accanto ai fornelli, da tempo erano state appese le bucce d’arancia. Avevano profumato l’ambiente e ora, essiccate e ridotte in polvere nel mortaio di pietra, si mescolavano al ripieno di fichi secchi, mandorle, nocciole tostate e uva passa. Noi bambini ci mostravamo volenterosi e offrivamo il nostro aiuto, ma eravamo soltanto d’impiccio. Mia madre e le altre donne di casa farcivano la pasta frolla e davano forme diverse a quelle golosità che, appena uscite dal forno, venivano spennellate con una glassa candida e spumosa. In ultimo, prima di riporre i buccellati nelle scatole di latta li spolveravano di cannella.
Era quello il profumo del nostro Natale. Le pareti di casa e noi stessi ne restavamo a lungo impregnati. Avrei voluto imbottigliarle quelle fragranze perché non si disperdessero. Oggi, a distanza di molti anni, mi piacerebbe offrirle in scintillanti coppe di cristallo con i bordi guarniti di fettine di rimpianto e ramoscelli di nostalgia.