Lo sguardo dal ponte: parte prima
(di Carmelo Fucarino)
I. La Legge naturale delle invasioni barbariche
La terra è stata da sempre teatro di grandi migrazioni di popoli, soprattutto nei tempi in cui l’uomo non conosceva l’agricoltura e pertanto doveva spostarsi per acquisire territori vergini da sfruttare. Tuttavia influì anche un’altra importante componente, il fisiologico incremento demografico che impose per sopravvivere la strategia dei nuovi sciami dell’alveare. Come racconta Paolo Diacono nella monumentale Historia Langobardorum in sei libri in latino, nella regione settentrionale che i Romani chiamavano globalmente Germania, “remota dal calore del sole e gelida per il freddo delle nevi, tanto più salubre per il corpo umano e adatta a propagare le stirpi”, “innumerevoli torme di prigionieri portate via erano disperse per vendersi tra i popoli meridionali”. Tuttavia “molte genti sono uscite da essa per il fatto che genera tanti mortali quanti a stento può nutrire, genti che tuttavia afflissero parti dell’Asia, ma soprattutto l’Europa che confina con esse”.
Parimenti “la stirpe dei Winili, cioè dei Longobardi”, avrebbe iniziato nel IV secolo la sua secolare migrazione dalla Scandinavia. Poiché la popolazione era tanto cresciuta “da non potervi abitare insieme”, divisero la turba in tre parti e scelsero con sorteggio “quale di esse debba abbandonare la terra dei padri e cercare nuove sedi”. La parte alla quale la sorte assegnò di “abbandonare il suolo natale e cercarsi terre straniere” scelse come capi i due fratelli Ibore e Aione, giovani floridi e gagliardi come tutto il loro popolo. I Longobardi, chiamati così per la lunghezza della barba, mai toccata da ferro (nella loro lingua lang significa lunga e bard barba), dopo avere vinto i Vandali, emigrando di regione in regione pacificamente o con la forza, si insediarono per molti anni in Pannonia. Solo nel 568 si affacciarono dai colli del Friuli sull’Italia e la invasero, quando era stremata dalla peste e dalla crisi politica di Bisanzio. Conquistate Vicenza e Verona, poi Pavia che resistette per tre anni, si impadronirono con le armi di tutta l’Italia settentrionale. Il 3 settembre 569 prese Milano forse quell’Alboino che diede a bere a Rosmunda nel teschio di suo padre e fu perciò da lei fatto uccidere. Poi i vari duchi, riuniti a Pavia, elessero re il sanguinario Clefi che “uccise di spada molti potenti romani, altri cacciò dall’Italia”.
La lingua degli invasori
È certo che gli antenati della cosiddetta Padania passarono assai presto dall’uso della madrelingua longobarda al latino volgare. Su una falera longobardica per finimento di cavallo si legge, si deus pro nus qui contra nus. Il Dio al quale si riferivano era quello cristiano ariano, rinnegato ormai il terribile Wotan, dio del turbine, della caccia e della guerra, ma anche inventore delle arti e del commercio, come il romano Mercurio. La nobiltà longobarda chiese agli istitutori dei figli di insegnare la lingua e la cultura latina, tanto che la loro linguamadre era già scomparsa nell’VIII secolo sostituita dal latino volgare.